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Celebrazioni per i 700 anni dalla scomparsa di Dante Alighieri

01/04/2021 21:04

Lorenzo Bonini

Arte,

Celebrazioni per i 700 anni dalla scomparsa di Dante Alighieri

Dante Alighieri: celebrazioni a 700 anni dalla scomparsa. padre della lingua italiana il suo complesso universo creativo e il suo uso così preciso e studiato.

 

Dante Alighieri a 700 anni dalla scomparsa è ancora attuale.

 

A lui è state dedicato addirittura un giorno, il 25 marzo, ribattezzato il Dante dì data in cui, secondo gli studiosi, ha avuto inizio il suo viaggio ultraterreno narrato nella Divina Commedia. Lungo tutta la Penisola vengono organizzati eventi, mostre, installazioni, a partire proprio dalla città natale, Firenze, croce e delizia del poeta, che ne fu affascinato, ma anche tristemente deluso dopo l'esilio. Oggi in pieno Covid 19 oltre trenta istituzioni fiorentine hanno  scelto di raccontare la storia della vita di Dante e della sua città attraverso eventi, digitali e non. Nella sola Firenze saranno oltre cento le iniziative di carattere scientifico, giornate di studi, conferenze, ma anche progetti culturali di ampio respiro: mostre, esposizioni, concerti, spettacoli teatrali, performance di danza e persino una lettura integrale della Divina Commedia, con l'intento di raccontare il poeta e ciò che rappresenta a 360 gradi. AI Museo Nazionale del Bargello, uno dei luoghi danteschi per eccellenza, dove tra gli affreschi della Cappella del Podestà si cela il primo ritratto a noi noto di Dante, per mano di Giotto e dei suoi allievi, e dove nella Sala dell'Udienza il 10 marzo 1302 il poeta venne condannato all'esilio definitivo, si terrà la mostra Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante. In programma dal 23 marzo al 25 luglio, sarà un percorso a tappe che offrirà l'opportunità di comprenderlo e di comprenderne la sua rivoluzionaria modernità. Qui sotto sono riportate alcune analisi sulla sua storia di cavaliere e della vita di Firenze e dei fiorentini.

 

             Per domare la ghibellina Arezzo, che nonostante la batosta degli imperiali a Benevento resisteva spavalda a Firenze e alla sua espansione verso sud, i guelfi le mossero guerra con un esercito multiregionale, toscani, bolognesi, romagnoli, in tutto 10.000 fanti, più 1600 cavalieri. Gli aretini opposero 800 cavalieri e 8000 fanti toscani, romagnoli, marchigiani. Con Arezzo erano schierati gli arrabbiati ghibellini, fuorusciti da Firenze; con Firenze, gli infuriati guelfi fuorusciti da Arezzo, gli uni e gli altri risoluti a far trionfare la parte sulla patria. Era 1'11 giugno 1289, una giornata afosa, conclusasi con la vittoria dei fiorentini, un po' per la preponderanza numerica e il valore delle loro milizie, un po’ per le miopi a del comandante aretino, che invece che alla guerra sarebbe stato meglio se fosse andato dall'oculista. Alla vigilia dello scontro, svoltosi nella piana di Campaldino, i ghibellini si ritenevano sicuri di vincere, disprezzavano i fiorentini perché “si lisciavano come dame e si pettinavano le zazzere”, e il fatto di avere 800 cavalieri contro 1600 non li preoccupava: uno dei nostri, dicevano, vale due dei vostri. Bonconte da Montefeltro, uno dei loro capi, non condivideva questa disinvolta aritmetica e suggerì prudenza, ma l'impaziente vescovo di Arezzo, Guglielmino degli Ubertini, che soleva dir messa con elmo e spada, mandò il guanto di sfida. Purtroppo era corto di vista, e scorgendo da lontano gli scudi rettangolari del nemico, alti due metri, affiancati a barriera, dipinti di bianco col giglio scarlatto, li scambiò per mura, confondendo maledettamente le idee sull’esatta topografia del luogo.  le idee sull'esatta topografia del luogo. I guelfi disposero in prima fila 150 feditori a cavallo, il fior fiore della gioventù fiorentina; nella seconda il grosso della cavalleria, comandata da Amerigo di Narbona; nella terza la fanteria del popolo; ultima la riserva, agli ordini di Corso Donati. II carroccio, per l'angustia del sito, fu lasciato nelle retrovie. Anche gli aretini avevano adottato lo stesso schema tattico: 300 feditori, 500 cavalieri, i fanti in terza posizione. Nella prima fila dei fiorentini c'era Dante, ventiquattrenne, al suo battesimo delle armi, che pensiamo abbia acquistato di sua tasca, perché cavallo e armatura, per regolamento militare, erano a carico del cavaliere. Generalmente i poeti non conquistano medaglie sul campo. Alceo e Orazio fecero, davanti al nemico, fughe celebri quanto i loro versi. L’intellettuale Dante, cavaliere di prima fila, si comportò bene, anche se egli stesso ci confessa di aver provato "temenza molta", che alla fine della giornata si tramutò in "allegrezza grandissima". Al grido di "San Donato!" i ghibellini attaccarono per primi, i guelfi risposero con "Narbona cavaliere!" ma furono caricati dai nemici, che sollevando un polverone d'inferno, sconvolsero le prime schiere dei fiorentini, li inseguirono con temeraria audacia, arrivando a strisciare sotto i loro cavalli e sventrarli col pugnale. A questo punto, la presunzione d'aver già vinto segnò la loro rovina.

 

Spintisi troppo avanti, furono dapprima contrattaccati dal massiccio impeto della fanteria, poi attanagliati dalla riserva di Corso Donati, che con manovra avvolgente li prese alle spalle e li fece a pezzi. La riserva dei ghibellini restò bloccata da un temporale, lo stesso che fece misteriosamente scomparire il corpo di Bonconte, mai più ritrovato. Si disse che il diavolo in persona era venuto a prelevarlo, per portarlo all'inferno. Con lui cadde anche il vescovo Guglielmino. In totale, 1700 ghibellini uccisi, oltre 2000 prigionieri. L'ingiurioso motto "Quando un asino raglia un guelfo nasce" non l'avrebbe ripetuto più nessuno, per un pezzo. Nel successivo agosto, Dante combatté nella spedizione dell'alleanza guelfa contro Pisa, e fu uno dei quattrocento cavalieri che, al comando di Nino Visconti, conquistarono, dopo tre giorni d'assedio, il castello di Caprona. In queste esperienze militari, assieme al poeta, andava maturando idee sull'esatta topografia del luogo. I guelfi disposero in prima fila 150 feditori a cavallo, il fior fiore della gioventù fiorentina; nella seconda il grosso della cavalleria, comandata da Amerigo di Narbona; nella terza la fanteria del popolo; ultima la riserva, agli ordini di Corso Donati. II carroccio, per l'angustia del sito, fu lasciato nelle retrovie. Anche gli aretini avevano adottato lo stesso schema tattico: 300 feditori, 500 cavalieri, i fanti in terza posizione. Nella prima fila dei fiorentini c'era Dante, ventiquattrenne, al suo battesimo delle armi, che pensiamo abbia acquistato di sua tasca, perché cavallo e armatura, per regolamento militare, erano a carico del cavaliere. Generalmente i poeti non conquistano medaglie sul campo. Alceo e Orazio fecero, davanti al nemico, fughe celebri quanto i loro versi. L'intellettuale Dante, cavaliere di prima fila, si comportò bene, anche se egli stesso ci confessa di aver provato "temenza molta", che alla fine della giornata si tramutò in "allegrezza grandissima". Al grido di "San Donato!" i ghibellini attaccarono per primi, i guelfi risposero con "Narbona cavaliere!" ma furono caricati dai nemici, che sollevando un polverone d'inferno, sconvolsero le prime schiere dei fiorentini, li inseguirono con temeraria audacia, arrivando a strisciare sotto i loro cavalli e sventrarli col pugnale. A questo punto, la presunzione d'aver già vinto segnò la loro rovina. Spintisi troppo avanti, furono dapprima contrattaccati dal massiccio impeto della fanteria, poi attanagliati dalla riserva di Corso Donati, che con manovra avvolgente li prese alle spalle e li fece a pezzi. La riserva dei ghibellini restò bloccata da un temporale, lo stesso che fece misteriosamente scomparire il corpo di Bonconte, mai più ritrovato. Si disse che il diavolo in persona era venuto a prelevarlo, per portarlo all'inferno. Con lui cadde anche il vescovo Guglielmino. In totale, 1700 ghibellini uccisi, oltre 2000 prigionieri. L'ingiurioso motto "Quando un asino raglia un guelfo nasce" non l'avrebbe ripetuto più nessuno, per un pezzo. Nel successivo agosto, Dante combatté nella spedizione dell'alleanza guelfa contro Pisa, e fu uno dei quattrocento cavalieri che, al comando di Nino Visconti, conquistarono, dopo tre giorni d'assedio, il castello di Caprona. In queste esperienze militari, assieme al poeta, andava maturando il cittadino. Se il dovere delle armi lo aveva reso partecipe delle sorti esterne della patria, rientrato in città la passione politica lo rese partecipe di quelle interne. Eliminato il pericolo ghibellino, i guelfi si concessero il lusso di dilaniarsi tra loro, e si divisero in due correnti, poi diventati due partiti, facenti capo a due facinorose famiglie, i Donati e i Cerchi. Bastava un niente per attaccar lite. Pretesto preferito, al solito, i matrimoni.

 

Corso Donati, tracotante aristocratico, desiderava sposare in seconde nozze Tessa, ricca ereditiera (seimila fiorini), figlia di Accerito degli Ubertini da Gaville. I parenti di lei non erano favorevoli, ma la madre, visto che era un bell’uomo, combinò le nozze contro il parere di tutti. Anche contro il parere dei Cerchi, parenti degli Ubertini, che brigarono per far diseredare la neo sposina. La lite approfondì il solco che divideva Cerchi e Donati, fin da quando Corso s'era sbarazzato della prima moglie, una Cerchi, propinandole, pare, una larga dose di veleno. Bisognava anche stare attenti ai gesti più semplici, più innocenti. Durante le esequie d'una Frescobaldi, un cavaliere s'alzò dalla sedia per accomodarsi la giubba spiegazzata. Capita. Subito gli avversari immaginarono che stesse per impugnare la spada e scoppiò una zuffa generale, in cui per poco non ci scappò il moro- to, e un secondo funerale. La sera di Calendimaggio del 1300, i Donati con i loro amici, servi e simpatizzanti, cenarono in allegria, bevendo più del solito. Al levar delle mense, uno della brigata fece cadere il discorso sui Cerchi, gli odiati, danarosi plebei che non trascuravano occasione per ostentare le loro recenti ricchezze.

 

"Dove saranno i Cerchi a quest'ora?"

"In piazza Santa Trinità, a guardare le danze".
"Andiamo a darvi un'occhiata?"

"Andiamo, ho una gran voglia di menar le mani".

 

Arrivati a Santa Trinità, le gaie danze della primavera si tinsero di sangue. Un partigiano dei Donati si avventò contro Ricoverino dei Cerchi e con un colpo ben calcolato gli tagliò netto il naso. Sfregiare un nemico era molto più che ucciderlo, il mutilato diventava una dimostrazione vivente dell'abilità spadaccina del feritore, un deterrente per futuri avversari. Dopo questa zuffa, il partito guelfo si spaccò ufficialmente in due, prendendo i Cerchi il nome di Bianchi, i Donati quello di Neri, mutuati da Pistoia anch’essa lacerata da due fazioni, i Cancellieri Neri e i Cancellieri Bianchi.

Un altro episodio. Corso Donati odiava a morte Guido Cavalcanti, delicato poeta d'amore e fazioso partitante. Lo odiava a un punto tale che, durante un pio pellegrinaggio a Sant'Jacopo di Galizia,

tentò di farlo uccidere da un sicario. Guido giurò di vendicarsi, e appena rientrato a Firenze gli tirò una freccia per strada. Sangue e pellegrinaggi, rivoluzione e miracolo economico, Firenze scoppiava di salute e di beghe. Nel 1296 fu posta la prima pietra di Santa Maria del Fiore; e due anni dopo, la prima pietra del Palazzo della Signoria: monumenti della pietà cristiana e dell'orgoglio borghese. Ci si ammazzava nelle piazze, poi si correva in chiesa, a discutere di affari pubblici, e invocare la celeste benedizione. Erano tempi di strepitosa violenza, nell'amore e nell'odio. Rissosa e devota, Firenze innalzava al cielo torri e preghiere. Quando Corso Donati usciva dal suo palazzo montando un cavallo bianco, il popolino gli si stringeva attorno gridando “Viva il barone”. Egli aveva tutti i requisiti per piacere alla folla, univa in sé qualità complementari che, mescolandosi, sprigionavano un fascino straordinario: l'alterigia dell'aristocratico, la foga del tribuno, la baldanza del guerriero, l'impazienza dell'anarchico, Bell'uomo, parlava e vestiva bene, il soprannome di barone gli stava come un guanto “Ha ragliato l'asino di Porta San Piero?” domandava alludendo a Vieri dei Cerchi, capo dei Bianchi. Risata generale. Vieri era un mercante venuto dal nulla, e lo si vedeva bene, "grande" per censo non per sangue, rappresentante della "gente nova", inurbatasi dal contado e arricchitasi con scandalosa rapidità. Questo goffo plebeo, ricco sfondato, per fare dispetto ai Donati aveva acquistato il palazzo dei conti Guidi, poco lungi dalle loro case, l'aveva murato al pianterreno, trasformandolo in cupa fortezza; l'aveva restaurato, sopraelevato, riempito di servi e cavalli, menandovi una vita fastosa da parvenu. Corso lo chiamava asino, ma in cuor suo invidiava le incalcolabili ricchezze dei Cerchi, anche se erano state in parte accumulate col mestiere degli sciacalli. Si diceva infatti che quella famiglia comprasse sotto prezzo i beni confiscati agli eretici. Usurai da lunga data, in punto di morte regolarmente si pentivano, ordinando agli eredi la restituzione (parziale) del maltolto, oppure devolvendolo alla fabbrica del Duomo, che risentiva un immediato, benefico contraccolpo finanziario, ogni volta che uno strozzino in agonia vedeva spuntare, in fondo alletto, le fiamme dell'inferno.

È difficile tracciare un profilo netto del programma dei due partiti. Più che un preciso progetto politico, avevano l'ambizione del potere, fomentata dalle due famiglie rivali, pronte a tutto, anche ad usare, quale massa di manovra, il popolo minuto, sempre disponibile, non avendo nulla da perdere, ad ogni turbolenta novità. Guelfi erano i N eri e guelfi i Bianchi: i primi, filo pontifici
ad oltranza, per il semplice motivo che Bonifacio aveva assegnato agli Spini, di parte Nera, il monopolio degli affari della curia, provocando le ire dei Cerchi, cioè dei Bianchi. Questi, esclusi
dalla ghiotta riserva di caccia, avevano, per delusione commerciale, assunto posizioni critiche nei confronti di Roma. Analogamente, fuori di Firenze, c'erano i ghibellini estremisti, fanatici,
detti Secchi, e i moderati, i possibilisti, detti Verdi. Un guelfo Bianco si trovava ideologicamente più vicino a un ghibellino Verde che a un guelfo N ero, per un gioco di attrazione delle mezze
ali, frequente nella storia dei partiti. L'ala destra d'un partito di sinistra lega spesso con l'ala sinistra d'un partito di destra. Per assicurarsi l'incondizionato appoggio di Bonifacio VIII, i Donati
misero in circolazione la voce calunniosa, secondo cui i Cerchi e soci erano cripto ghibellini. Il comportamento maldestro, contraddittorio, tenuto da questi nel difendersi dall'accusa, e la loro condotta ambigua verso i ghibellini fuorusciti, aggravò i sospetti. Papa Bonifacio andò su tutte le furie. Dante fu guelfo Bianco e un programma l'aveva: lo stato di diritto, la pace sociale, la separazione del potere civile dal religioso, convertire al metodo democratico (pur nei limiti che questa espressione ha in tempi di "democrazia parziale") i clan dei nobili; impresa difficile, poiché costoro, simpatizzassero per i Bianchi o per i Neri, si servivano della democrazia per ucciderla. Erano affetti da una forma d'inguaribile reducismo, "Noi siamo i vincitori di Campaldino, noi abbiamo salvato la patria contro Arezzo" ripetevano a chi osava ricordargli che, cessata la guerra,

Cedant arma togae, le armi devono cedere alla toga, non si può stare ventiquattr'ore al giorno con l'elmo in testa. Anche Dante aveva combattuto a Campaldino, fatto il suo dovere, ma non
assunse atteggiamenti da eroe. Capì che il coraggio richiesto nella vita civile, nell'amministrazione della cosa pubblica, è di qualità diversa, è più tenace, oscuro, paziente del coraggio sul campo di
battaglia. Questo è una superba folgore che in un attimo guizza e si consuma, quello una fiammella sommessa e costante, che illumina e riscalda tutta una vita. E intraprese il cursus honorum,
disdegnato dagli aristocratici per la sua modesta condizione economica, sospettato dai borghesi per la sua origine gentilizia, inviso ai Cerchi per avere sposato una Donati. Riuscì tuttavia a farsi
strada, a farsi ascoltare nei principali organismi amministrativi del comune. Ambizioso? Sì, certamente, di quell'ambizione che spinge i galantuomini a interessarsi e preoccuparsi della cosa pubblica, e senza i quali al potere andrebbero soltanto i farabutti, ambiziosissimi sempre. La politica era per Dante la terza natura, la seconda era la poesia. Qualunquista avanti lettera, il Boccaccio deplora che un uomo come lui, allevato nel seno della filosofia, abituato a considerare le vicende del mondo col distacco dell'uomo colto, non abbia resistito alla seduzione degli onori pubblici. Si meraviglia che la storia non gli abbia insegnato la fallacia delle cose umane, il rapido crollo dei regni, e l'alterno giocare della fortuna. Boccaccio non capiva che Dante aveva fatto della politica una santa, aspra milizia, il galantuomo non aveva il diritto di disertare la lotta, il peggiore di tutti i peccati essendo l'ignavia, tanto grave che lo rifiuta perfino Belzebù.

 

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta de' cattivi
a Dio spiacenti ed a' nemici sui.

dice degli ignavi incontrati nell'antinferno, anime che vissero senza infamia e senza lode, non parteggiarono per il bene né per il male, ragion per cui:

 

fama di loro il mondo esser non lassa,
misericordia e giustizia li sdegna:

non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

 

Ai primi del '300, l'anno decisivo della sua vita, andò a Ro- ma (quasi tutti i dantisti lo ammettono) per il Giubileo, la prima grande assise della cristianità, convocata dal suo grande avversa-
rio personale, Bonifacio VIII. Nella Città Eterna il poeta cristiano non vide il mite pastore delle genti, il servo dei servi di Dio, ma un fastoso, dispotico monarca. Dai tempi di Gregorio VII e
di Innocenzo III mai la chiesa era stata così forte e temuta. Ritornava con lui l'assolutismo teocratico di Gregorio, che nel Dictatus papae aveva solennemente affermato: "La chiesa romana è stata fondata solo dal Signore. Solo il pontefice romano è detto, a giusto titolo, universale. Egli solo può deporre o assolvere i vescovi. In un concilio, il suo legato è superiore a tutti i vescovi, anche se è inferiore per l'ordinazione, e può deporli. Nessuno può abitare sotto il tetto di chi sia stato scomunicato da lui. Il papa è il solo uomo cui i prìncipi devono baciare il piede. Il suo nome è
unico nel mondo ed è l'unico pronunciato in tutte le chiese. Ha la facoltà di deporre gli imperatori. Non può essere giudicato da nessuno. Le sue sentenze non debbono essere modificate da
nessuno, egli può modificare le sentenze di chiunque. Può sciogliere dal giuramento di fedeltà fatto agli ingiusti". Bonifacio portò ad altezze vertiginose la chiesa dei legisti e dei canonisti, sorretta da una rigida organizzazione gerarchica e disciplinare. Contro questa chiesa, concepita come istituzione, serpeggiavano in alcuni ordini religiosi fermenti che reclamavano un ritorno alla primitiva purezza e povertà evangelica. Erano gli spiritualisti che, rifacendosi alla predicazione del calabrese Gioachino da Fiore, vagheggiavano una chiesa mistica e non politica, l'umiltà-contro il trionfalismo, la voce della coscienza contro quella della gerarchia. Sfiorando, beninteso, l'eresia. Ma Bonifacio sconfinava sicuramente nella simonia, quando costringeva vescovi, arcivescovi e abati ad accettare prestiti forzosi, col tasso del sessanta per cento, dalla banca degli Spini, cui era interessato il nipote Jacopo Caetani. Gli Spini gli fornivano anche pellicce e velluti, con cui si confezionava paludamenti orientaleggianti, più adatti ad un satrapo che ad un pastore d'anime. Incedeva nei cortei con gli speroni dorati, la spada in una mano, nell'altra la croce, due valletti reggevano lo scettro e il globo, il tutto preceduto da un araldo di buoni polmoni, che proclamava alla folla essere il papa il sovrano universale, arbitro supremo delle cose del cielo e della terra. C'era stato un momento in cui le speranze degli spiritualisti parvero prossime a realizzarsi. Pochi anni prima, alla morte di Nicolò IV, era salito alla tiara, col nome di Celestino V, frate Pietro da Morrone, un eremita che viveva di preghiere e digiuni, il corpo coperto di piaghe verminose, nelle spelonche della Maiella. Ultraottantenne, inesperto degli affari del mondo, e soprattutto del mondo degli affari, divenne rapida preda delle spregiudicate manovre del cardinale Benedetto Caetani, che lo indusse a dimettersi. Il suo posto fu preso proprio dal Caetani, che diventò Bonifacio VIII e, in ringraziamento di avergli ceduto la tiara, lo rinchiuse in una rocca presso Alatri. Temeva che un ex pontefice a piede libero diventasse, col suo demagogico pauperismo, un vessillo nelle mani dei suoi nemici, gli spiritualisti sul piano religioso, i Colonna su quello politico-militare. Dopo breve tempo, Celestino morì. Ucciso, ripeté per secoli la voce popolare. Nel 1888, una commissione di scienziati, esamina- to il cranio, vi trovò un foro rettangolare, che avvalorava le dicerie: l'ex pontefice era stato ammazzato nel sonno, da qualcuno che, certamente per ordini superiori, gli aveva conficcato un chiodo in testa. Bonifacio vedeva Colonna dappertutto. Il giorno delle Ceneri del 1299 s'inginocchiò davanti a lui, in San Giovanni in Laterano, Porchetto Spinola, arcivescovo di Genova. Gli Spinola erano nemici dei guelfi, il che significava, per papa Caetani, amici dei Colonna. Come gli fu vicino, Bonifacio non seppe frenare l'ira, gli gettò negli occhi la cenere benedetta e al posto delle rituali parole "Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere tornerai", gli gridò: "Ricordati che sei ghibellino, e coi ghibellini sarai ridotto in polvere". Due anni prima, il 3 maggio 1297, i Colonna, scendendo al livello dei ladroni da strada, avevano messo a segno un colpo che aveva profondamente toccato il papa, nel prestigio e nella borsa. Assieme ad alcuni scherani, Stefano Colonna aspettò, sulla via Appia, un convoglio di muli che trasportava il tesoro pontificio e rapinò duecentomila fiorini d'oro. Poi i Colonnesi alzarono la mira, e appoggiandosi agli spiritualisti che negavano ogni legittimità al papa simoniaco e nepotista, si appellarono ad un concilio, chiedendo che Bonifacio fosse sottoposto ad un giudizio di vescovi, rovesciando così il principio dell'assolutismo monarchico, sancito nel Dictatus papae. Bonifacio rispose fulminando scomuniche, dichiarò i Colonna "eretici scismatici e blasfemi", bandì contro di loro una crociata equivalente, per l'acquisto delle indulgenze, a quelle combattute in Terrasanta. Uccidendo un Colonna si guadagnava lo stesso merito che sbudellando un infedele. Legate al papa da tanti interessi concreti, le città toscane si dichiararono solidali con lui. La guerra contro i Colonna si concluse con la distruzione di Palestrina, loro quartier generale. Affinché la città non risorgesse, Bonifacio fece arare le macerie e spargere il sale infecondo, "sull'esempio della vecchia Cartagine africana" (13 giugno 1299). Gesto melodrammatico, da grande regista del- la politica, destinato a far colpo sulla fantasia popolare, mentre i Colonna, sconfitti e dispersi, riparavano in Francia. L'autoritario Bonifacio non tollerava obiezioni. Al cardinal Giovanni Monaco, che si era lamentato perché trascurava i diritti del Sacro Collegio, rispose: “Piccardo, piccardo, tu hai una testa  
piccarda, ma per Dio, io ti picchierò, e farò in ogni cosa il mio volere, e non l'abbandonerò per te o per tutti quelli che sono qui, come tanti asini". Perciò il cardinal Brancacci concludeva,
sconsolato: "Melius est mori quam vivere cum tali homine" (è meglio morire che vivere con un simile uomo). Anche l'idea del Giubileo, mai concepita da altri pontefici prima di lui, va inserita in questa politica di grandeur teocratica, per la maggior gloria di Dio, e sua personale. Il 22 febbraio 1300, festa della cattedra di san Pietro, il papa annunciò l'indulgenza per tutti i fedeli,
purché venissero a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli. Esclusi dal beneficio "illos falsos et impios christianos qui porta- verunt vel portabunt merces seu res proibitas saracinis" (quei
falsi ed empi cristiani che portarono o portano ai saraceni merci o cose proibite), nonché i soliti Colonna, equiparati, poco ecumenici. In precedenza, la Città Eterna aveva visto altri pellegrinaggi,
famosi quelli per la Veronica, l'immagine di Cristo stampata nel panno che la leggendaria Veronica gli aveva dato perché s'asciugasse il viso, durante la salita al Calvario. La reliquia mostrata in San Pietro, e Dante, nel poema, ricorda con emozione

 

... colui che forse di Croazia

viene a veder la Veronica nostra

che per l'antica fame mai si sazia,
ma dice nel pensier fin che si mostra
"Signor mio Gesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?"

 

Per il Giubileo, l'afflusso di pellegrini superò ogni precedente d’ogni previsione. A decine di migliaia questi antenati degli odierni turisti traversarono Il col di Tenda, Il Moncenisio, il Piccolo  
San Bernardo, il Gottardo, il Brennero e scesero verso Roma sfidando il maltempo, le strade allagate, la malaria, le frane, i briganti, le difficoltà dell’alloggio. Dalle Alpi. a Roma non s’impiegava meno di quaranta giorni Per l’occasione bolognesi aggiustarono la strada da San Rufillo a Pietramala. Prima di partire, qualcuno vendette il podere, molti fecero testamento, perché si poteva morire durante il viaggio, tanto era lungo e tribolato, per fortuna la bolla pontificia assicurava l'indulgenza anche ai deceduti "strada facendo". Sbarrato l'uscio, intere famiglie si misero in cammino, baroni e contadini, soldati e mercanti, monache e casalinghe, gente d'ogni età, condizione e mestiere. Chi a cavallo, chi a piedi, chi in lettiga. A Modena, alcuni giovanotti, non. essendo in grado di affittare una cavalcatura, presero i genitori in spalla, come fece Enea con Anchise. I notai di Siena, consenziente il governo, chiusero in massa gli studi e si fecero romei. Arrivati in vista della Città Eterna, i pellegrini cantavano:

 

O Roma nobilis, orbis et domina,

cunctarum urbium excellentissima,
roseo martyrum sanguine rubea,
albis et virginum liliis candida
salutem dicimus tibi per omnia

te benedicimus: salve per saecula

 

(O Roma nobile, regina del mondo, la più eccellente di tutte le città, rossa per il rosso sangue dei martiri, candida per i bianchi gigli delle vergini, noi ti salutiamo e ti benediciamo per tutti i secoli: salve). Nella calca, più d'uno morì schiacciato. Fu necessario aprire nelle mura una porta supplementare, e per disciplinare l'afflusso fu istituita sul ponte di Castel Sant' Angelo, forse per
la prima volta nella storia del traffico romano, la circolazione a due sensi per i pedoni. Secondo il Villani, che era presente, duecentomila pellegrini gremivano ogni giorno chiese, locande e taverne, in virtù della bolla che subordinava le indulgenze ad un soggiorno prolungato. Chiunque, pentito dei suoi peccati e comunicato, visitasse per quindici giorni, anche non consecutivi, le
tombe di san Pietro e san Paolo (per i romani, trenta giorni), otteneva la remissione totale dei peccati. Indulgenza applicabile anche ai defunti. Ma per i pellegrini, poca indulgenza da parte
degli osti. Il pernottamento d'un uomo e del cavallo non fu giudicato eccessivo farlo pagare un tornese, la decima parte d'un fiorino, il quale pesava grammi 3,54 d'oro. Un romeo cui era stato
assicurato, per sé e famiglia, un letto di tre, quattro piazze, si trovò a doverlo spartire con otto compagni di viaggio, che divennero compagni d'insonnia. Molto caro il fieno, un prelato
spagnolo si lamentò perché il pasto del cavallo costava più del suo. Sulle tombe dei due apostoli, dall'alba al tramonto, monete di tutte le nazioni, fiorini, ducati, tarì, venivano rastrellate da due
instancabili chierici, rastellantes pecuniam infinitam scrive un cronista, e uno storico americano li chiama papal croupiers. Si calcola che in un anno la tomba di Pietro abbia fruttato trentamila fiorini d'oro, quella di Paolo ventunomila.

Altre stime, più fantasiose, parlano di 1700 fiorini al giorno, pari a sei chili d'oro. Va subito detto che le spese della Camera apostolica si aggiravano sui centomila fiorini l'anno, e buona parte delle entrate dell’Anno Santo fu impiegata nei lavori della basilica di San Piedriche per volontà del papa cominciò a prendere, nel cerimoniale liturgico, il posto di San Giovanni in Laterano. A partire dal Giubileo, il nuovo cuore della cristianità sarebbe stato San Pietro, non San Giovanni. Anche in questo vediamo un segno della potente personalità di Bonifacio, ai cui piedi s'inginocchiarono, come davanti ad un monarca universale, uomini e donne di tutto il mondo, perfino un'ambasceria di mongoli. Contro un re che li opprimeva, i fiamminghi si rivolsero a lui, quale giudice di "ogni diritto così del terrestre che del celeste impero". L'ebbrezza del trionfo lo spinse ad iniziare trattative con Alberto d'Austria, perché rinunciasse ai suoi diritti sulla Toscana, a favore dei suoi nipoti. Dopo Gregorio VII e Innocenzo I1I, mai un pontefice aveva affermato con pari orgoglio il suo potere personale. “Nella grandezza d'animo” scrive L. A. Muratori “Nella magnificenza, nella facondia ed accortezza, nel promuovere gli uomini degni alle cariche, e nella perizia delle leggi e dei canoni, ebbe pochi pari. Ma perché mancante di quell'umiltà che sta bene a tutti, e massimamente a chi esercita le veci di Cristo maestro d'ogni virtù e soprattutto di questa, e perché pieno d'albagia e di fasto, fu amato da pochi, odiato da moltissimi, temuto da tutti”. (C.M.)

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